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NON CHIAMATELO DEPOSITO, MA MUSEO DI SANTO CHIODO

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Deposito dei Beni culturali di Santo Chiodo
Veramente una operazione notevole.
Nato nel 2008 tra le molte critiche di chi non ne vedeva l’utilità e di chi pensava fosse sovradimensionato, la struttura sorge nella zona industriale di Santo Chiodo. Una grande costruzione moderna, bella, pulita, lineare.

Una proficua sinergia tra enti ha permesso tutto questo.
Il Comune ha messo il terreno, la Regione ha costruito l’edificio e il Ministero lo ha dotato di una attrezzatura tecnologica al pari, se non superiore (ci dice la nostra guida), a quella presente al museo del Louvre. Posto su una piattaforma antisismica, dotato di sistema di antifurto, antintrusione, stabilizzazione climatica, strumentazione tecnologica adeguata.
Qui, oggi, sono ricoverate le opere d’arte danneggiate dal terremoto di sette piccoli comuni dell’Umbria. Ed è già al completo. Segno che la struttura non è sovradimensionata, ma al contrario sottodimensionata.
L’idea è nata dopo il terremoto del 1997 per la necessità di proteggere le opere recuperate sotto le macerie di tutta l’Umbria e volendo del centro Italia, ma il nostro patrimonio culturale è talmente imponente, nella quantità, e talmente diffuso, che in realtà il deposito riesce a contenerne solo una minima parte.
È strutturato come un vero e proprio ospedale delle opere d’arte. Diviso per reparti con caratteristiche diverse, a seconda dello stadio della “malattia” e della cura da approntare.
Zona di scarico, accoglienza (pronto soccorso). Zona di stabilizzazione delle opere. E poi catalogazione, riunione dei pezzi coerenti e ripulitura, nei vari reparti. Per finire con la zona dove, all’interno di camere prive di ossigeno e arricchite di azoto, si eliminano tutte le forme di vita (batteri, muffe, microrganismi) che potrebbero continuare ad agire nell’azione di deterioramento delle opere.
A questo punto i beni possono uscire dall”ospedale’ ed essere consegnati al vero e proprio lavoro di restauro. 
È una operazione lunghissima, complessa e paziente.

Basti pensare che nelle camere “azotate”, le opere devono rimanere per almeno un mese. Per distruggere il terremoto impiega pochi secondi, l’uomo per ricostruire ci mette molto tempo.
Bisogna visitarlo per comprendere a fondo la valenza di questo posto che si pone, a ragione, come modello nazionale. Ce ne dovrebbe essere almeno uno per regione. 

Molto valida l’iniziativa dell’amministrazione che ha iniziato a programmare visite guidate, anche durante il Festival, ma sarebbe bello se si spingesse ancora oltre. Insistere con azioni strutturate per farlo conoscere e promuoverlo. Proprio come un museo, un museo particolarmente vivo, perché le opere non sono (solo) ferme in bella mostra, ma transitano nei vari reparti per i diversi trattamenti. E sicuramente la parte più affascinante è vedere gli specialisti all’opera. Vivo, perché ogni giorno cambiano le opere trattate e cambiano i trattamenti a cui sono sottoposte.

La prima mossa da fare sarebbe quella di trovargli un nome accattivante, perché “deposito” è poco attrattivo. E poi andrebbe promosso attraverso la comunicazione e il marketing che si usa solitamente per i musei. Apertura al pubblico in orari stabiliti secondo un calendario annuale, con visite guidate permanenti, biglietto di ingresso, segnaletica, iniziative strutturate collegate, laboratori, convegni, comunicazione, visite scolastiche. Insomma ancora di più di quello che, lodevolmente, si è iniziato a fare.
Questo è un altro vero, importante tassello di quella che potremmo chiamare la Spoleto, capitale del restauro, se riuscissimo a mettere a sistema, su questo fronte, altre importanti istituzioni cittadine.

 

L’autrice dell’articolo: Leonilde Gambetti