Le Bal de Paris di Blanca Li è uno spettacolo che va assolutamente visto. Se non altro per verificare a che punto siamo con la realtà virtuale, o almeno con quella applicata al teatro.
Per ora è così. Infili sulle spalle uno zainetto, ancora un pochino troppo pesante, che spiffera un leggerissimo soffio caldo, metti i tracciatori ai polsi e alle caviglie, il visore e le cuffie in testa, insomma indossi l’avatar e l’avventura comincia.
Scegli dalla vetrina virtuale il tuo abito della collezione Chanel comprensivo di maschera abbinata e il viaggio ha inizio. Un viaggio straordinariamente ricco nei saloni sontuosi della più bella festa da ballo, nei labirinti botanici che conducono ad un giardino da sogno, attraversi un magnifico lago a bordo di un lussuoso battello, oltrepassi fontane danzanti, acque popolate da ballerine di nuoto sincronizzato, sali su un romantico treno che ti conduce alla Ville Lumière, brindi nel più famoso night di Parigi, seguendo i due protagonisti che danzano intorno a te, insieme a te.
Tutti sembrano felici. Tutto sembra fantastico. Per chi usa come unico senso la vista, e si accontenta di una visione da cinema tridimensionale, all’interno di un film d’animazione.
Qualche rara volta riesci ad intercettare un compagno e stringergli la mano o accennare un movimento che assomigli ad una danza.
L’esperienza sensoriale, per me, è stata tutta qui. Quando si chiude il sipario virtuale (le batterie non durano più di 53 minuti) togli la maschera/visore e ti ritrovi in un ring hi-tech vuoto.
Non sai con chi hai (poco) interagito, perché gli avatar intorno a te erano copie di una decina di personaggi. Tutte copie. In maschere senza espressione, senza quei segni particolari che rendono le persone uniche e identificabili, speciali.
Contatto emotivo quasi zero.
A me ha fatto venire in mente la pandemia, a quando eravamo tutti soli, isolati, ognuno nella propria stanza o casa. Sapendo che in ogni stanza o casa c’era qualcun altro solo, isolato, come me. Tutti imprigionati in bozzoli. Stanze o Avatar, poco cambia. Mi sono sentita un po’ defraudata del mio corpo che pure sentivo di avere ma che non vedevo per quello che conosco realmente, ma era solo una proiezione fumettistica. Ho continuato a sorridere in direzione dei miei compagni di viaggio e poi mi sono sentita stupida pensando che loro non avrebbero mai visto il mio sorriso, le mie espressioni, né io le loro. Avrebbero visto solo una maschera, tanto bella quanto anonima.
Ho pensato che i veri spettatori di questo spettacolo virtuale siano gli assistenti esterni che guardano, immagino divertiti, noi pubblico pagante con zainetto in spalla, fili e visore, vagare all’interno di un piccolo rettangolo di moquette nera, pensando di attraversare infiniti e fantastici paesaggi, che non ci sono, guardare a terra per non cadere nell’acqua, che non c’è, fare il saltino per salire a bordo del battello, che non c’è, compiere infinite giravolte su noi stessi per uscire dal labirinto, che non c’è.
Ho pensato che la realtà è sempre meglio del mondo virtuale.
Ho pensato che il sorriso di un volto, una lacrima che scende su una guancia, un sopracciglio che si alza, una stoffa di lino, un maglione di lana, il profumo di un fiore, il rumore dei passi, un ricciolo di capelli che cade impertinente sulla nuca, una goccia di sudore che riga il viso, una voce che trema, un respiro umano, sono meglio di 1000 avatar e mille viaggi virtuali.
Ho pensato che se volevo vivere una avventura esperienziale, che coinvolga tutti i sensi, dovevo gettare via la maschera/visore, i fili e lo zainetto e correre a teatro. Quello vero. Quello reale.
Tra la pillola rossa e la pillola blu (ricordate il film Matrix?) so quale scegliere.
Questa non è una bocciatura dello spettacolo “in scena” ogni giorno al Festival di Spoleto che, come già detto, va assolutamente visto. Tra qualche anno, credo pochi, il progresso renderà l’attrezzatura utilizzata e le immagini costruite al computer molto più sofisticate e Le Bal de Paris sarà il ricordo di uno straordinario, innovativo e gigantesco esperimento artistico.
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